Transustanzia…che?
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Transumanza? Transizione? Transazione? No! Transustanziazione. Ripetetelo con me: tran-su-stan-zia-zio-ne. Ovvero? Ovvero “cambiamento di sostanza”. Ovvero…? Ovvero… beh allora il discorso è un po’ lungo ma visto che oggi è la Festa del Corpus Domini (1), credo valga la pena affrontarlo, in quella che sarà forse la più “fanta” di tutte la fantaquestioni affrontate finora.
Mi si intenda: non perché il tema che tratteremo sia “fantasy”, bensì perché sarà al contempo il più concreto e il più al limite dell’umana comprensione che da cattolici possiamo immaginare.
La Chiesa Cattolica con questo “parolone” vuole esprimere un’idea tanto semplice quanto davvero singolare per chi non vi aderisca per fede, ovvero il fatto che, dopo il rito della consacrazione officiato durante la Messa, le specie eucaristiche, per virtù divina, smettano di essere pane e vino ma si convertano realmente e totalmente nel Corpo e nel Sangue di Cristo.
La fede in questo fatto deriva alla Chiesa assieme dalla Scrittura e della Tradizione.
SCRITTURA Gesù Stesso pronunciò le celebri parole dell’ultima cena «Questo è il mio corpo […]. Questo è il mio sangue», testimoniate da tutti i Vangeli Sinottici, oltre che dalla prima lettera ai Corinti (I Cor 11, 23-25); d’altra parte, il Vangelo di Giovanni mostra come, ancor prima dell’ultima cena, Gesù aveva cominciato a disvelare ai discepoli e a chi ascoltava le sue predicazioni il mistero eucaristico «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6, 51-58). Parole che Gesù Stesso non doveva lasciar intendere fossero da interpretare come “metaforiche” o simboliche”, se già chi lo ascoltava allora diceva: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» (Gv 6, 60b).
TRADIZIONE Per riportare le testimonianze dei Padri della Chiesa in favore della Presenza Reale del Corpo e del Sangue di Cristo nell’Eucaristia non basterebbe un libro, per cui cerco di fare un selezione di alcuni passaggi più significativi:
Giustino (2), Prima Apologia (150 d.C. ca.)
LXVI, 1-2: Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato.
Infatti noi li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso e di cui si nutrono il nostro sangue e la nostra carne per trasformazione, è carne e sangue di quel Gesù incarnato.
Cirillo di Gerusalemme (3), Catechesi Mistagogiche (350 d.C ca.)
XIX, 7: E come noi facciamo sul pane e sul vino eucaristici un’invocazione all’adorabile Trinità perché questi alimenti, prima pane e vino comuni, con questa invocazione diventino pane e vino eucaristici, il pane corpo di Cristo e il vino sangue di Cristo […]
XXI, 3: […] dopo l’invocazione dello Spirito Santo, non è più un pane comune ma corpo di Cristo.
Agostino (4), discorso 228/b (inizio V sec. d.C.)
Cristo Signore nostro dunque, che nel patire offrì per noi quel che nel nascere aveva preso da noi, divenuto in eterno il più grande dei sacerdoti, dispose che si offrisse il sacrificio che voi vedete, cioè il suo corpo e il suo sangue. Riconoscete nel pane quello stesso corpo che pendette sulla croce, e nel calice quello stesso sangue che sgorgò dal suo fianco.
La Chiesa Cattolica con questo “parolone” vuole esprimere un’idea tanto semplice quanto davvero singolare per chi non vi aderisca per fede
Tuttavia il termine “transustanziazione” non compare in nessuno di questi scritti perché è stato frutto di una lunga elaborazione da parte della teologia cattolica nel confronto-scontro con la filosofia aristotelica, tra XII e XVI sec., il “linguaggio scientifico” della cultura europea.
Aristotele affermava — contro Platone — che i “principi formali” delle cose, degli enti, non si trovassero al di fuori delle cose (nell’Iperuranio platonico, per esempio) ma in loro, nella materia stessa di cui sono fatti. Sicché affermava che i singoli enti che esperiamo tutti i giorni, “che ci stanno (-stantiae) sotto (sub-) mano”, le “sostanze” (sub-stantiae/upo-keimena in greco), fossero un’unione inscindibile (sinolo) di materia (pietra, legno, ossa, pelle, muscoli ecc.) e forma (il principio che fa di cinque pezzi di legno un “tavolo”, di un pezzo di ferro un “cucchiaio” ecc.), oltre che di una seri di aspetti contingenti detti accidenti (colore, dimensioni, foggia ecc.), che possono essere in un modo piuttosto che in un altro senza conseguenze sulla natura di un oggetto.
Ebbene, per dire quindi in termini “scientifici” quel che la Chiesa aveva sempre creduto fino a quel momento, ossia la “presenza reale” di Cristo nell’Eucaristia, tra XII e XVI sec. occorse confrontarsi con questo lessico aristotelico e capire come maneggiarlo.
Tommaso d’Aquino, nella questione 75 della Parte Terza della sua Summa (5), rende ottimamente conto di tutti i ragionamenti che si potrebbero fare in proposito.
1) Si potrebbe intendere la “presenza reale” come un cambiamento del tipo (art. 4):
pane/vino che ho davanti agli occhi = (accidenti del pane/vino + materia del pane/vino + forma di Cristo)
2) Oppure di questo tipo (art. 6):
pane/vino che ho davanti agli occhi = (accidenti del pane/vino + materia di Cristo + forma del pane/vino)
3) Oppure infine di questo tipo (art. 4):
pane/vino che ho davanti agli occhi = (accidenti del pane/vino + materia di Cristo + forma di Cristo)
Tommaso propende per questa terza opzione: non un mutamento solo formale né solo materiale MA sostanziale, cioè sia della materia che della forma delle specie, le quali mantengono solo le loro apparenze sensibili, i loro accidenti.
Per definire questo mutamento S. Tommaso ricorre a due termini: uno generico, “conversione” delle specie nel Corpo e nel Sangue di Cristo, e uno tecnico “transustanziazione” (art. 4). Questi termini vennero poi fatti propri dalla Chiesa in modo definitivo dal Concilio di Trento fino ad oggi,
Ora, a te lettore, a questo punto, potrebbero sorgere due domande spontanee: perché è da preferire il mutamento 3) agli altri? E perché Cristo non si rende presente anche in modo sensibile a ogni Messa? Non sarebbe più utile per convertire le persone? Facciamo parlare Tommaso:
(art. 1) Ora, essendo sommamente proprio dell’amicizia che «gli amici vivano insieme», come dice Aristotele, Cristo ci promise come ricompensa nella vita eterna la sua presenza corporale […]. Tuttavia nel frattempo non ha voluto privarci della sua presenza corporale in questa peregrinazione, ma ci unisce a sé in questo sacramento per mezzo della realtà del suo corpo e del suo sangue. Per cui egli stesso dice: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui (Gv6,57). E così questo sacramento è il segno della più grande carità ed è il sostegno della nostra speranza, grazie a una così familiare unione di Cristo con noi.
(art. 6) […] alcuni hanno pensato che dopo la consacrazione rimangano non solo gli accidenti del pane, ma anche la sua forma sostanziale. Ma ciò non può essere. Primo, perché se la forma sostanziale del pane rimanesse, si convertirebbe nel corpo di Cristo soltanto la materia del pane. E così il pane non si convertirebbe in tutto il corpo di Cristo, ma solo nella sua materia. Il che è incompatibile con la forma del sacramento, nella quale si dice: «Questo è il mio corpo».
Per cui — dice Tommaso, ma possiamo comprenderlo tutti — se vogliamo davvero credere alla promessa di Cristo nell’ultima cena e all’Ascensione («Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» Mt 28, 20b) non possiamo pensare che Cristo sia presente nell’Eucaristia “a pezzi” (!), cioè come o solo materia o solo forma, ma inevitabilmente in un tutt’uno, come è del tutto indivisa e indivisibile la Sua Persona (e d’altra parte lo è ogni ente).
(art. 1) [La transustanziazione ndr] si addice alla perfezione della fede, la quale ha per oggetto sia la divinità di Cristo che la sua umanità […]. Ora, avendo la fede per oggetto realtà invisibili, di conseguenza Cristo, come ci offre la sua divinità invisibilmente, così in questo sacramento ci offre anche la sua carne in modo invisibile.
(art. 5) […] con i sensi si costata che, fatta la consacrazione, rimangono tutti gli accidenti del pane e del vino. E ciò fu disposto sapientemente dalla provvidenza divina […] affinché il ricevere in modo invisibile il corpo e il sangue del Signore giovi ad accrescere il merito della fede.
Insomma — dice Tommaso — conviene alla nostra fede che Dio non si manifesti troppo palesemente nell’Eucaristia, altrimenti questa perderebbe di merito, non sarebbe neppure più fede. Cosa che, mi permetto di far notare, si può dire in generale di tutto l’agire del Nostro «Dio nascosto» (Is 45, 15), mai troppo palese e manifesto, tanto da rappresentarNe un vero e proprio marchio di fabbrica, come già ha avuto modo di osservare Pascal (pensiero n°180):
La religione cristiana si adopera con egual impegno a stabilire queste due cose: che Dio ha impresso segni sensibili nella Chiesa per farsi conoscere da quanti lo cerchino sinceramente e averli, nondimeno, che li ha ricoperti in modo da esser scorto soltanto da coloro che lo cerchino con tutto il cuore.
non possiamo pensare che Cristo sia presente nell’Eucaristia “a pezzi”
Infine qualcuno potrebbe chiedersi perché mai ai giorni d’oggi dovremmo continuare a parlare del Mistero Eucaristico nei termini “antiquati” della filosofia aristotelica.
Innanzitutto c’è un dato di autorità: la Chiesa chiede ai suoi fedeli e teologi di attenersi a questo armamentario concettuale attraverso affermazioni magisteriali che godono del sigillo dell’infallibilità, in particolare il Concilio di Trento con il “Decreto sul santissimo sacramento dell'Eucaristia” cap. IV (6) e Leone XIII che, nell’Enciclica “Aeterni Patris” afferma con solennità (7):
Per la verità, sopra tutti i Dottori Scolastici, emerge come duce e maestro San Tommaso d’Aquino, il quale, come avverte il cardinale Gaetano, "perché tenne in somma venerazione gli antichi sacri dottori, per questo ebbe in sorte, in certo qual modo, l’intelligenza di tutti".
[…] Per queste ragioni, specialmente nelle passate età, uomini dottissimi e celebratissimi per dottrina teologica e filosofica, ricercati con somma cura gl’immortali volumi di Tommaso, si diedero tutti all’angelica sapienza di lui, non tanto per averne ornamento e cultura, quanto per esserne sostanzialmente nutriti.
[…] Ma, quel che più conta, i Romani Pontefici Nostri Predecessori esaltarono con singolari manifestazioni di lodi e con amplissime testimonianze la sapienza di Tommaso d’Aquino.
[…] Gli stessi Concili Ecumenici, nei quali risplende il fiore della sapienza raccoltovi da tutto l’universo, si adoperarono per onorare in modo singolare Tommaso d’Aquino.
[…] Noi dunque, mentre dichiariamo che si deve accogliere con aperto e grato animo tutto ciò che sapientemente è stato detto e che è stato inventato ed escogitato utilmente da chicchessia, esortiamo Voi tutti, Venerabili Fratelli, a rimettere in uso la sacra dottrina di San Tommaso e a propagarla il più largamente possibile, a tutela e ad onore della fede cattolica, per il bene della società, e ad incremento di tutte le scienze.
Tuttavia questo dato di autorità si basa su una solida ragione: i concetti aristotelici sono sostanzialmente un’indagine linguistica attorno al modo di noi uomini di parlare del mondo reale; una volta superato lo scoglio linguistico, chiunque può capire la pregnanza e il ruolo inaggirabile che tali concetti possono avere ancora oggi nel comprendere il nostro modo di parlare della realtà, andando a individuare aspetti universali del comune linguaggio umano.
Chi può negare, infatti, che quando parliamo di un oggetto, intendiamo al contempo parlare della materia di cui è composto e dell’idea che in qualche modo lo informa? Che, per esempio, se parliamo di una “sedia”, non parliamo solo di un agglomerato di legno e vimini ma anche di un oggetto che serve per sedervisi. E non sappiamo tutti che possono esistere sedie dalle mille forme e dimensioni ma che saranno sempre tutte “sedie”, differenti per motivi puramente accidentali? Ecco quindi come anche noi — forse saperlo — siamo aristotelici. Non stupiamoci allora né lamentiamoci se la Provvidenza Divina ha provveduto affinché il concetto della Presenza Reale venisse sancito, in modo definitivo e senza più ambiguità, proprio grazie a questa concettualità. Senza la quale, non per nulla, si corre inevitabilmente il rischio di ridurre la Presenza Reale a un simbolo o poco più — così tradendola —, come hanno finito per fare i protestanti. Accettiamo il fatto, invece, che a Dio sia parso conveniente così! E chi siamo noi per poterGli obbiettare alcunché?
Ad Maiorem
Per approfondire:
(4) https://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_301_testo.htm
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