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  • Immagine del redattorePietro Calore

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Aggiornamento: 2 gen 2021


Eppure se tutto ciò stava accadendo doveva avere un senso! Il mondo andava alla rovescia ma non la sua mente, come giustificare questa eccezione? Come non pensare che fosse “voluta”? Gli venne in mente quindi Seneca:


Ogni momento, ogni luogo può insegnarvi come sia facile rompere con la natura e gettarle in faccia il suo dono.


«Il dono della vita, intendeva, mi pare…»


La porta è aperta. Se non volete lottare, è possibile fuggire.


Insomma, se la vita si protrae più di quanto sia desiderabile, possiamo sempre liberarcene, diceva lo stoico. Lui personalmente non aveva mai pensato al suicidio ma ora che il desiderio di smettere di esistere si era fatto più forte che mai, questa possibilità, pensò, gli era stata sottratta. Era evidente che chi aveva architettato questo scherzo della natura aveva “chiuso la porta”, voleva che lui non fuggisse più.

Aveva sempre pensato di condurre una vita intensa, piena di significato, perlomeno degna, onesta, soddisfacente. Forse si era ingannato, forse si era sempre solo “distratto”. Qualsiasi motivo, fine, scopo per cui era vissuto fino a quel giorno era svanito e in fin dei conti, era risultato effimero. E adesso non sapeva trovarne uno, non sapeva se lo avrebbe mai trovato, e non poteva fuggire. Gli venne pertanto da cambiare prospettiva. Fino a quel momento aveva solo pensato a se stesso. Non si colpevolizzò troppo. In fin dei conti si era trovato ad essere come uno che viene trascinato via dall’impeto di un torrente e pensa agli altri solo in funzione delle loro braccia che possono salvarlo, e li odia se non lo fanno. Forse anche gli altri stavano vivendo quella stessa situazione? Capì presto che non ci sarebbe stato modo di scoprirlo, almeno in base a quello che aveva vissuto quel giorno: non poteva parlare, non poteva muovere autonomamente alcuna parte del corpo, neanche gli occhi, come comunicare? Tornò a pensare al futuro: quanto sarebbe durato tutto ciò? Frattanto continuava a non provare sonno.

Il sole era calato, si faceva notte. Il suo corpo si infilò sotto le coperte, fece la solito toeletta serale, salì le scale, si mise a scorrere la bacheca di Facebook sul divano del salotto. In un istante, quello che fino a quel momento era stato un flusso impetuoso di pensieri si interruppe. Cominciò infatti a percepire una sofferenza spaventosa, mai provata prima, che catturò tutta la sua attenzione. Da dove proveniva? Non era un male fisico, stava benissimo quella sera, pensò. Nel movimento a ritroso del suo corpo incontrò suo fratello minore. Ricordava di averlo mandato a quel paese dopo cena: gli aveva lasciato ben intendere che non gliene fregava niente di giocare con lui e che aveva cose più importanti da fare. «Ecco che gli grido addosso!». Dopo un ultimo lancinante picco il male svanì. Si ripresentò tuttavia poco dopo. Se avesse potuto piangere per il male sarebbe stato un fiume. «Che cos’è questo dolore atroce?!» si continuava a chiedere come in agonia. Proprio allora, quella sofferenza viscerale che lo bruciava da dentro parve tramutarsi in un’immagine sempre più nitida e vivida. Un’immagine però puramente intellettiva, una sorta di comprensione di un dato reale ma non materiale, anzi, di un dato più reale di che se fosse stato materiale.


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