Fu come un attimo di sonnolenza «Come quando si prende sonno alla guida» pensò, non senza un brivido di emozione e di sollievo per il fatto di essere in bicicletta e di essere quasi arrivato in università. «Al più mi ammaccavo l’altro braccio» tentò di sogghignare. Ma non ci riuscì. A quel pensiero, stupido e banale se si vuole, non seguì alcuna smorfia sul suo viso, bensì ne sopraggiunse trafelato un secondo «Ma che diavolo…?!».
Non controllava più il suo corpo. Non riusciva più a muovere le gambe, le braccia, le mani, la testa, il viso, gli occhi! Eppure pedalava forsennato sul selciato bagnato e le poche, taglienti gocce di pioggia gli rigavano la faccia, gli inumidivano i guanti, il cappotto e cadevano dal cielo bianco. Svoltò a sinistra, passò le Piazze, imboccò via San Francesco, si scrollò di dosso la fanghiglia tenendosi il gomito dolente. Si rialzò. Quindi scivolò bruscamente sulla pozza in mezzo alla sconnessa pista ciclabile. Se ne avvide all’ultimo. Riprese lo slalom tra i pilastri dei portici sulla destra, scalando le marce dopo aver frenato con decisione. Giunto a casa salì in bicicletta, chiuse e aprì il garage, uscì di casa.
Terrore, puro terrore. Non riusciva più a pensare. Gli sembrava di star volando su un ottovolante: ogni movimento del suo corpo gli giungeva talmente inaspettato da fargli percepire come una forte vertigine. Era tutto troppo surreale. Tentò ripetutamente di strabuzzare gli occhi, di chiuderli, di stropicciarseli, di provare a resettare la mente, di verificare di non stare sognando, ma invano. Non controllava più la propria vista. Vedeva quel che gli occhi guardavano, insomma, era costretto a vedere, ma anche a toccare, a sentire, odorare. Il suo corpo, i corpi delle persone che incontrava e il mondo attorno a lui scorrevano alla rovescia, come una pellicola mandata al contrario.
Che impressione vedere sua madre e i suoi fratelli muoversi a mo’ di automi, parlargli al contrario, in un modo che sulle prime, in verità, gli parve buffo. Non passò molto perché cominciassero ad apparirgli nulla più che esseri inerti, a tutti gli effetti dei morti in movimento. Iniziò persino a temerli. Eppure dentro di sé gridava: gridava a loro perché lo aiutassero. Lo faceva in un modo viscerale che lo spaventava e lo faceva vergognare assieme, che solo i più reconditi istinti – pensò – potevano giustificare. La vita frenetica di quel giorno qualsiasi continuava a riavvolgersi così che ne veniva continuamente sopraffatto.
Alla fine si arrese: no, non sarebbe riuscito a concentrarsi e a pensar nulla finché non ci fosse stata un po’ di calma, tanto valeva lasciarsi trascinare dall’inerzia fino a che il sole non fosse sorto e fosse sopraggiunta la notte. Finalmente, accesa la luce in camera sua, si mise le ciabatte, si tolse le coperte e aprì gli occhi. Tutto divenne buio.
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