FM 1E5
- Pietro Calore
- 10 giu 2020
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 13 gen 2021
Agitando forsennatamente le zampette, lo scarafaggio corse su e giù per le condutture della base, uscendone infine per gli scarichi aggettanti sulla costa. Qui trovò, come da accordi, il gabbiano, cui fece una relazione dettagliata degli ultimi avvenimenti. Concordarono entrambi che questo dovesse prendere subito il volo e raggiungere quanto prima l’Assemblea: fortunatamente la sua sede più vicina distava appena un quarto d’ora di tratta; inoltre, ragionarono, essendo in convocazione straordinaria da diversi giorni, non ci sarebbero stati problemi a che venisse trasferita lì dalle Alpi svizzere. Il gabbiano decollò con slancio, garrendo ai quattro venti, contro ogni avventato falco che lo adocchiasse per cena, la sua tutela diplomatica: più di qualcuno dovette rassegnarsi scornato, non risparmiando al gabbiano delle occhiatacce, miste di seccatura e curiosità.
Al di là dell’ansia e della preoccupazione, il gabbiano provava indubbiamente una certa ebbrezza della quale non riusciva a non compiacersi: a lui, proprio a lui, toccava portare all’Assemblea la comunicazione più importante dell’ultima era geologica, una comunicazione di quelle «che se ne sono portate sei o sette nella storia della vita!». Sognando a occhi aperti, roteava nel cielo compiendo ardite cabrate che concludeva scendendo rapidamente in picchiata verso il pelo dell’oceano. Del tutto inaspettato, uno schizzo d’acqua gli colpì il muso: il gabbiano si avvide allora di star perdendo tempo e si risolse a recuperare il precedente tracciato rettilineo «È inutile che mi gasi tanto se poi arrivo in ritardo e succede il disastro…» si disse. L’isola era ormai ben visibile all’orizzonte.
La volpe bianca a guardia dell’ingresso dell’antro dormiva. Il gabbiano la svegliò indispettito e le ordinò di avvisare immediatamente il Capo di far cambiare la sede assembleare. Lui, intanto, si inoltrò nel profondo e scuro cunicolo che per anni aveva sognato di percorrere. Giunse quindi alle propaggini della sala assembleare, ricavata in una grotta carsica inaccessibile agli umani. Benché immersa nell’oscurità, poteva già percepirne sulle piume la maestà: le correnti d’aria e gli echi di ogni più piccolo stillicidio precìpite dalle volute rocciose del soffitto ne lasciavano solo intuire le auguste dimensioni. Ad un tratto, in ordine orario, dai più esterni ai più interni, si accesero i grandiosi fari incastonati tra una stalattite e l’altra della fulgida volta. Il gabbiano dovette coprirsi per un poco gli occhi prima di abituarsi al bagliore, seppure provasse costantemente a sbirciare quello spettacolo, sfruttando a mo’ di filtro le barbule delle penne delle ali. Vennero allora delineandosi ad una ad una le sagome delle fila concentriche di scranni calcarei che coprivano tutto il fondo della spelonca, finché si illuminò anche l’ampia levigata arena centrale. Nessuno stupore, tuttavia, poté eguagliare la meraviglia che il gabbiano provò quando iniziò a materializzarsi, proprio lì nel mezzo, la svettante sagoma traslucida della Grande Sequoia.
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